COMMENTO ALLE LETTURE

La legge mosaica prescriveva che, quaranta giorni dopo la nascita del primo figlio, i genitori si recassero al tempio di Gerusalemme per offrire il loro primogenito al Signore e per la purificazione rituale della madre.
Anche i genitori di Gesù si assoggettarono a questa prescrizione. Non fu, però, un rito come tutte le altre volte. Le altre volte, erano gli uomini che «presentavano» il loro figlio a Dio in segno di offerta e di appartenenza; questa volta, è Dio che presenta suo Figlio agli uomini. Lo fa per bocca del vecchio Simeone e della profetessa Anna. Simeone lo presenta al mondo come salvezza offerta a tutti i popoli, come luce che illuminerà le genti, ma anche come segno di contraddizione: come colui che metterà a nudo i pensieri dei cuori.
In ricordo di questo fatto, narrato dal Vangelo di Luca, sorse ben presto, in Oriente, una festa chiamata Hypapantè, cioè festa dell'incontro. Nel secolo VI, essa si estese all'Occidente e qui si arricchì di una processione penitenziale destinata a soppiantare il rito pagano delle lustrazioni (i Lupercalia) che si celebrava, appunto, in tale periodo. Più tardi, si aggiunse il rito della benedizione delle candele e la festa prese il nome popolare di Candelora. Con ciò si voleva esprimere, con un segno visibile, la fede in Cristo quale « luce delle genti Gesù ». Le candele portate a casa servivano, tra l'altro, a rischiarare l'agonia di coloro che, tra un anno e l'altro, passavano da questo mondo al Padre.

In un mondo che cambia tanto rapidamente e che tende a seppellire tutte le piccole tradizioni religiose e popolari del passato, anche la povera candeletta ha perso di significato e di fascino. Cosa rappresenta più oggi la luce di una candela, di fronte all'invadenza delle luci di tutti i tipi di cui si nutre la nostra modernità? Così, prima di giungere in Chiesa, pochi sapevano che oggi era la « festa delle candele ».
Invece, i riti che abbiamo ricordato esistono ancora e si celebrano in ogni chiesa, almeno a una Messa. Si benedicono le candele, poi, tutti i presenti, con la candela accesa, seguono il celebrante in una simbolici processione verso l'altare; quindi si ascolta la parola di Dio e la Messa e si torna a casa, recando con sé la candela benedetta.

Anche se noi non ripetiamo tali riti, dobbiamo, però, sforzarci di cogliere il significato di questa bella festa. Per farlo, possiamo partire dai due nomi che la festa ha preso, rispettivamente, presso i fratelli ortodossi e presso di noi: Hvpapantè e Candelora: festa dell'incontro e festa della luce.

L'incontro di Gesù con Simeone ed Anna nel tempio di Gerusalemme, appare come il simbolo di una realtà molto più grande e universale: l'umanità incontra il suo Signore nella Chiesa. Abbiamo ascoltato all'inizio le parole del profeta Malachia che preannunciava questo incontro: « Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate ». Nel tempio, Simeone riconobbe per il Messia atteso Gesù e lo proclamò salvatore e luce del mondo. Capí che, d'ora in poi, il destino d’ogni uomo si decideva dall'atteggiamento assunto nei suoi confronti; egli sarà per la rovina o per la risurrezione.
Come dirà il Battista: egli tiene il ventilabro nelle mani per separare il buon grano dalla pula (cf. Mt. 3, 12).

La cosa si ripete, su ben altra scala, anche oggi: nel nuovo tempio di Dio che è la Chiesa, gli uomini « incontrano » Cristo, imparano a conoscerlo, lo ricevono nell'Eucaristia, come Simeone lo prese tra le braccia; la sua parola diventa, ivi, per loro, luce e il suo corpo forza e nutrimento. E' l'esperienza, del resto, che facciamo ogni domenica: ogni volta, è un vero incontro tra di noi e con Dio. Oggi, tale esperienza ha in più che è tradotta all'esterno e accentuata dal simbolismo della festa: la processione con cui, questa mattina, i fedeli sono entrati in chiesa insieme con il sacerdote, recando la candela accesa e cantando, era, appunto, segno di questo andare incontro a Gesù che ci chiama dall'interno della sua Chiesa, in attesa di andargli incontro un giorno nell'Hypapantè eterna, quando saremo noi a essere « presentati » da lui al Padre.

Ma eccoci al secondo nome e al secondo simbolismo della festa: Candelora, festa della luce. Che vuol dire tutta questa insistenza sul tema della luce, oggi? Che significa questo portare con sé a casa una candelina di pochi soldi? Significa una cosa che ci sentiamo ripetere tante volte, ma che, forse, non abbiamo mai veramente capito o creduto. Che noi dobbiamo essere la luce del mondo; che nessuno accende una lucerna per tenerla nascosta sotto il moggio e che, perciò, nemmeno Cristo ha acceso le nostre, nel battesimo, perché le teniamo ben occultate, ma piuttosto perché con esse facciamo luce agli altri che sono con noi.
Noi cristiani non faremo mai abbastanza per superare un duplice equivoco. Primo: l'equivoco di credere che la luce della fede ci sia stata data per rischiarare, con essa, solo la nostra strada, disinteressandoci degli altri. Secondo: l'equivoco di credere che la fede sia come una candela che si tiene accesa quando si è in chiesa, facendo, però, attenzione a nasconderla subito appena si esce dalla chiesa e si rientra nella vita di ogni giorno.
Che esame di coscienza spietato ci occorre! Che ne abbiamo fatto della nostra luce? Che ne è stato di quella candela accesa nel nostro battesimo? Chi se n'è accorto? Chi ha potuto riscaldarvici? Gesú disse di essere venuto a portare il fuoco sulla terra (Lc. 12, 49); non era, certo, il fuoco materiale che brucia e che distrugge, ma il fuoco che riscalda: l'amore. Esso doveva operare il grande disgelo del mondo attanagliato dal gelo dell'egoismo e dell'odio. La sua vita fu una fiammata di questo fuoco; gli uomini, però, gli permisero di ardere solo « per poco ». Perché potesse prolungarsi nel tempo, egli pensò di affidarne una fiammella ai suoi discepoli, perché gli uomini non ne rimanessero ignari.
La luce che ci ha affidato era, dunque, null'altro che il precetto dell'amore: Amatevi gli uni gli altri; amate anche i vostri nemici. E' questa la luce che dobbiamo portare con noi, ogni volta di nuovo, dalla chiesa, per far luce « a tutti quelli che sono nella casa », a quelli con cui viviamo la nostra giornata.
E', in senso evangelico, una luce posta sul candelabro il cristiano che si sforza di essere comprensivo con le persone, a cominciare dalle più vicine, che non ha parole amare di critica e di disapprovazione per tutti, che sa incoraggiare un piccolo sforzo di bene negli altri. E' una luce colui che « ha la intelligenza del povero » e dell'anziano, che, cioè, sa capirlo, sa fermarsi un momento a parlare con lui o ad ascoltarlo. E' una luce chi sa perdonare il parente, il collega. Una luce che riscalda, perché luce di amore.

Ma non c'è da farsi illusione: amare è difficile, se prima non ci sentiamo noi stessi amati. L'Eucaristia che ora celebriamo è proprio questo: un'esperienza del Signore che ci ha amati per primo, che ci accoglie come siamo. E' questo il momento che realizza per noi la festa dell'«incontro».

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