COMMENTO ALLE LETTURE

La parabola del Vangelo di oggi è una di quelle che indigna il nostro senso di giustizia e, aggiungerei, è fatta apposta. Prima alcune indicazioni storiche sulla disciplina del lavoro dei braccianti al tempo di Gesù (che poi non sono così distante dalle attuali): la giornata lavorativa in iniziava alle 06 della mattina e finiva alle 18, la paga base (per 12 ore di lavoro) era un denaro. Il contratto era sulla parola e la scelta si faceva nella piazza del paese (quello che oggi accade davanti allo smorzo di materiali edili). Ovviamente chi era più conosciuto o forte o pronto, veniva scelto e chi non manifestava granché, ovviamente, era una seconda o terza scelta. Detto questo, entriamo nella parabola.

Ovviamente in chi ci identifichiamo? Ma certamente nei primi operai!

Il senso di ingiustizia della parabola viene dall'identificazione: se mi sento (e mi ci sento!) di essere l'operaio delle 6 di mattina (cosa che è tutta da dimostrare …) allora la domanda grande che mi fa questa parabola è: per quale motivo fai il bene che fai? Che cosa ti aspetti? Forse la domanda sta tutta qui ma ... andiamo per gradi.

La parabola è costruita verso un culmine: gli operai vengono scelti in modo normale (quelli delle 6), poi in modo sempre più esagerato, perché avrebbero lavorato sempre di meno (9 ore, 6 o 3 o addirittura 1 ora soltanto), tuttavia non si dà più una quantificazione alla paga, semplicemente "quello che è giusto te lo darò". Appunto, cosa è il giusto? Ovviamente noi ci aspetteremmo una parte frazionaria -con buona pace dell'insegnante di matematica- del denaro. Aggiungiamoci che un bracciante era un vero proletario, cioè oltre ai figli non aveva altro, rimaneva in piazza perché tanto a casa non avrebbe portato nulla, era un giorno perso non solo a livello economico ma anche a livello personale e umano, esagerando era un giorno di non vita, di morte. Nel caso della scelta di dare un denaro a tutti (nella parabola quindi vita a tutti) io personalmente avrei pagato prima quelli delle 6 e via via tutti gli altri, tutti felici e contenti, forse solo noi lettori ci saremmo fatti delle domande, ma l'ordine pubblico era salvaguardato. Ma non è questo l'intento di Gesù: io voglio che tu veda questa scena, che ti confronti con lo sbilancio, l'ingiustizia della misericordia, perché ti devi fare delle domande, 3 per la precisione:

  • cosa significa che il Padre è buono?
  • Tu sei l'operaio delle 6?
  • Per quale motivo fai il bene che fai?

Questo mi sembra il nocciolo duro della parabola; sono 3 domande strettamente legate tra loro. La prima ti chiede di dare forma alla bontà di Dio: cosa significa per te? Il volto di Dio sarebbe la versione spiritualizzata della maestra che sulla lavagna traccia la linea tra buoni e cattivi e premia e castiga in base alle azioni? E allora la bontà dove sarebbe? nella quantità del premio? E, d'altra parte, come collegare la giustizia? La prima lettura ci insegna proprio questo: Dio è un mistero e non possiamo proprio ridurlo ai nostri concetti: non significa che non ci si capisce niente ma che se penso di capire e poter spiegare tutto, allora sto proprio fuori strada. Dio lo si capisce nell'amore perché è Lui stesso che si spiega a noi e se non stiamo in ascolto, e un ascolto che sia veramente impastato di fiducia, non afferreremo mai la profonda bellezza di Colui che da sempre ci ama. La bontà di Dio ci svela come la nostra bontà sia asfittica, un abbellimento della giustizia remunerativa: se sei bravo allora ti voglio bene. Gesù ci insegna che è il suo amore che ci fa buoni, è una bontà che rende giusti, s. Paolo direbbe che giustifica, perché quando qualcuno ti vuole così tanto bene e crede in te, allora ti viene di dare il meglio di te, di andare in profondità perché c'è chi ti accetta e ti sostiene. Quando ti senti amato diventi generoso, è una regola certa!

Da questo segue la seconda domanda: perché allora fai il bene, perché ti comporti bene? Per la ricompensa? Per la paghetta? Per scappare dall'inferno? Per l'approvazione degli altri? Perché non sopporti l'idea di non essere il più bravo?

Il fratello maggiore della parabola del “figliol prodigo” è sempre in agguato dentro di noi, noi che siamo i "buoni", ed è una sindrome che avvelena il bene che facciamo e, molto più, intossica il rapporto con Dio. Sì, perché l'amore è un dono che gratuitamente si dona e altrettanto gratuitamente si riceve, se invece vivo per guadagnarmi l'amore di Dio allora ho automaticamente cancellato ogni gratuità: sono amato perché me lo merito, perché mi si riconosca il merito! Vivendo così ci si nega da soli l'esperienza della bontà di Dio: questo non significa che devo fare il male! Semplicemente che fare il bene è il luogo dove imparo il vocabolario di Dio: fare il bene mi apre cuore e mente a comprendere come ragiona il Signore, lo stupore di poter collaborare con Lui, la gioia di sentirci scelti anche quando noi per primi non ci sceglieremmo, è il motore della conversione. Zaccheo cambia perché nel momento più basso della vita scopre che Qualcuno ancora gli vuole bene e sa esagerare per lui, la sua generosità, a sua volta, sarà esagerata, non starà più a combattere per i soldi che fino a poco prima erano la sua ragione di vita. Allora ci dobbiamo fare le domande: dato che Gesù ti pagherà lo stesso, ti vorrà bene lo stesso, continueresti a fare il bene che fai? O smetteresti? Daresti spazio a quella vocina in fondo al cuore che ti fa invidiare i comportamenti sbagliati degli altri? Se vuoi: sei capace di goderti il bene che fai? Ti fa vivere seguire Gesù o ti ingrigisce la vita? A queste domande non si può fuggire per una vita intera. Quanti cristiani inaciditi da una vita di fatica nel "meritare" l'amore di Dio, una vita passata a giudicare gli altri perché, in fondo, li si invidia.

E in fondo ci aspetta la terza domanda: io sono l'operaio di quale ora? L'identificazione con l'operaio della 1° ora ci viene dal senso di ingiustizia che tracima dalla lettura di questa pagina del vangelo, ma se per un attimo, solo un attimo per carità …, ci mettiamo nei panni dell'operaio delle 17, cioè di chi si trova a prendere la paga piena per aver lavorato solo 1 ora, allora il sentimento è quello dello stupore, della gioia, della generosità. Proviamo ad invertire la parabola: se avesse pagato prima quelli delle 17, avrebbero avuto da ridire se il padrone avesse dato ancora di più a quelli delle 6? Ma sì, dagli anche 4 denari, se li sono ben guadagnati! Sentirsi beneficati, aver ricevuto un dono totalmente inaspettato ci apre a condividere la felicità, non ci sentiamo più minacciati dalla felicità e dalla gioia degli altri. È per questo che nella seconda lettura Paolo arriva a dire che pensa di aspettare ad andare in cielo perché sente di dover fare qualcosa di buono per i Filippesi, se ci si sente amati allora si diventa capaci di atti d'amore liberi e liberanti, si pensa di più agli altri che a sé stessi.

In conclusione, diventa importante capire chi sono io: se mi ostino a dire che sono l'operaio delle 6, che sto a posto, che se manco io il mondo si ferma, che nessuno è bravo come me e che nessuno se ne accorge, allora sono io che rimango in guerra con me stesso, con Dio e con i fratelli.

Oppure mi tolgo l'illusione di stare a posto, mi levo la maschera di chi deve essere perfetto per meritare l'amore, allora questa parabola è l'annuncio dell'amore di Dio. Segni esterni per riconoscere chi siamo: mormorazione o condivisione?

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