COMMENTO ALLE LETTURE

Il Vangelo ci propone la parabola del seminatore ed anche nelle prossime domeniche ascolteremo brani dal “discorso parabolico” del capitolo 13 di Matteo. Si tratta delle “parabole del regno”, molto note: il seminatore, la zizzania, il granello di senapa, il lievito, il tesoro e la perla, la rete con le quali Gesù ci parla della realtà misteriosa del regno dei cieli.

Oggi l’intero testo evangelico (Mt 13,1-23) comprende la parabola, una successiva domanda dei discepoli con la risposta di Gesù e la spiegazione della parabola. Nella forma breve si legge solo la prima parte.

Nel metterci in ascolto della parabola (vv. 3-9), è importante sapere che la missione di Gesù è arrivata ad un momento critico. Le folle hanno riconosciuto un insegnamento dato con vera autorità (cf. 7,29) ed hanno visto molti miracoli (cf. capp. 8-9) ma non hanno accolto la predicazione tanto che Gesù fa un lamento sulle città della Galilea perché non si sono convertite (cf. cap.11). Fra i capi, l’opposizione è cresciuta fino alla decisione di toglierlo di mezzo (cf. 12,24). Questa è l’esperienza del Signore quando, seduto nella barca sul lago mentre la folla era sulla spiaggia, “parlò loro di molte cose in parabole” (13,3).

 

Gesù propone la figura di un seminatore che fa la sua semina e evoca le immagini dei campi della Galilea sempre un pò sassosi, con poca pioggia e tanto sole, in mezzo ai quali la gente passava creando sentieri battuti. Dalla parabola emerge la sorte difficile del seme che non trova un terreno dove crescere e fruttificare. La maggior parte dei versetti insiste sul suo morire al punto che sembra non esserci possibilità di vita. È quello che Gesù ha sperimentato: il rifiuto, i facili entusiasmi, l’ostilità. Il seme è la parola del regno, come dirà Lui stesso successivamente, e la parabola mostra come il suo “impianto” sia tutt’altro che facile ma, al contrario, piuttosto contrastato e perfino fallimentare. Eppure il seminatore è un uomo di speranza ed alla fine mieterà un raccolto di straordinaria abbondanza, iperbolico rispetto alla media. Gesù, mentre parla, contempla il frutto che porterà la sua semina, sa che la Parola del Padre non tornerà senza aver compiuto ciò per cui è stata mandata (cf. Is 55,11, prima lettura). Lui è il seminatore e il seme è la Parola di Dio, ma seme e seminatore sono lo stesso, Gesù è la Parola di Dio e semina la Parola. L’ultimo versetto “chi ha orecchi intenda” è l’appello a comprendere quanto si è ascoltato, è una formula che invita a ricercare un senso ulteriore nelle parole udite.

 

Alla parabola fa seguito la parte sul perché Gesù parla in parabole (vv.10-17). La domanda è posta dai discepoli, che si differenziano da un “loro”, cioè dalle folle di poco prima. C’è una differenza fra i discepoli e la folla. La risposta di Gesù mette in luce le due situazioni: ai discepoli “è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha” (v.11-12). I misteri del regno sono il piano di Dio che si svela nella vita di Gesù. Ebbene ci sono alcuni, i discepoli, che hanno una buona disposizione verso di Lui e questi ricevono abbondantemente la conoscenza dei misteri divini; dall’altra parte ci sono coloro che non hanno cioè non si coinvolgono veramente e per questo sono destinati ad isterilirsi del tutto. Gesù richiama la profezia di Isaia, che denunciava il peccato del popolo evidenziandone la durezza del cuore. Per questa durezza gli occhi e gli orecchi non si aprono di fronte all’opera di Dio, vedono e ascoltano ma non comprendono; però Dio desidera guarirli. Beati, invece, i discepoli – dice il Signore – perché hanno la possibilità di vedere e ascoltare quello che l’Antica Alleanza ha potuto solo desiderare cioè la venuta del Messia e la realizzazione delle promesse.

Nella terza parte (vv. 18-23) c’è l’interpretazione della parabola con l’attribuzione di un significato ai quattro terreni, che vengono a rappresentare gli atteggiamenti dell’uomo nell’incontro con la Parola. I primi tre terreni esprimono gli ostacoli e le resistenze che impediscono al seme della Parola di portare frutto. Il primo terreno suggerisce un cuore simile ad una strada compatta e dura, dove tutto resta abbandonato in superficie. È un cuore che non “prende con sé” (non com-prende) la Parola e con ciò stesso la perde, se la fa rubare dal maligno. Il secondo terreno mostra la dinamica di una accoglienza gioiosa ma passeggera, un “fuoco di paglia” che vuol prendere, della Parola, solo ciò che gli da benessere. Il terzo terreno rappresenta il cuore idolatra e mondano, che non custodisce la Parola e si volge ad altre sicurezze. Il quarto terreno, finalmente, è un terreno fertile che accoglie il seme, un cuore che ascolta e “com-prende”. Qui la Parola potrà portare frutto in misura diversa ma sempre abbondante.

I quattro terreni seguono un andamento dalla non accoglienza totale all’accoglienza piena, in una diversità di condizioni. Questi cuori-terreno non sono giudicati né condannati, sono solo messe in luce le loro dinamiche in rapporto al seme.

* * *

La Parola del regno donata a tutti, secondo la possibilità di ciascuno

Sarebbe riduttivo considerare tutto il Vangelo di questa domenica focalizzato solo sul significato dei quattro terreni, anche se l’interpretazione della parabola produce lo spostamento dalla sorte del seme alle disposizioni interiori degli ascoltatori.

Innanzitutto bisogna cogliere l’aspetto del dono della Parola. Il Signore-seminatore esce di casa (da quella di Pietro a Cafarnao ma anche da quella del Padre nell’Incarnazione) per seminare generosamente ovunque, cioè per raggiungere ogni persona e situazione. Per prima cosa c’è da contemplare il dono di Dio, la Parola donata.

Poi bisogna capire il motivo per il quale Gesù ha raccontato questa parabola. Riguardo ai discepoli, lo scopo è quello di rassicurarli sul fatto che la sua missione avrebbe portato molto frutto. Nonostante l’apparente fallimento, l’opera di Dio si compiva in Lui, il regno diventava presente attraverso di Lui perché la Parola di Dio è efficace. C’è, dunque, un incoraggiamento importante del Signore verso i discepoli di ieri e di oggi: la Parola di Dio è potente, è viva ed avrà effetto anche quando il ministero, la catechesi, la predicazione, l’apostolato appariranno improduttivi e si scontreranno con il disinteresse o il rifiuto.

Riguardo alle folle, si potrebbe pensare che il parlare di Gesù in parabole sia volutamente oscuro e così lo intendono i discepoli. Anche noi potremmo dirgli tante volte: “Signore perché non parli più chiaramente?” Ma non è così. Il fatto importante è che il Signore parla: parla a quei “loro” diversi dai discepoli, parla a tutti, nessuno è discriminato né escluso dal dono della Parola. Se Gesù parla in parabole lo fa proprio per rivolgersi anche a chi in quel momento non accoglierebbe una parola più chiara. La parabola non è un discorso astratto ma neanche un discorso palese; per il fatto di utilizzare immagini semplici tratte dell’esperienza della vita quotidiana, entra più facilmente in risonanza con l’ascoltatore e dall’altra parte, proprio perché non è esplicita, può stimolare una riflessione. Parlare in parabole è, in realtà, una modalità facilitata, un linguaggio più accettabile; è una forma di espressione che suggerisce ma non inchioda l’interlocutore, è utile e anche necessaria quando chi ascolta non è in grado di ricevere un messaggio troppo diretto.

Le parabole e i misteri divini

C’è un altro valore importante delle parabole e lo troviamo sempre nel cap. 13 di Matteo: “Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. Da questo testo emerge che le parabole sono un modo di rivelazione dei misteri di Dio.

Se le parabole sono un linguaggio adatto a rivelare i misteri del regno e allo stesso tempo ci propongono le immagini delle realtà di ogni giorno, questo significa che ci aiutano a cercare la presenza di Dio nelle cose della nostra vita, ci insegnano a guardare per comprendere, suscitano e sostengono la nostra intelligenza spirituale. Nella Laudato sì il Papa scrive: «Dall’inizio del mondo, ma in modo particolare a partire dall’incarnazione, il mistero di Cristo opera in modo nascosto nell’insieme della realtà naturale, senza per questo ledere la sua autonomia» (n.99). Notiamo che tutta la Parola di questa domenica ha per sfondo la realtà naturale: pioggia, neve, terra, sassi, spine, rovi, germogli, fecondità e infecondità nel quadro del rapporto fra Dio e l’uomo. La realtà naturale-quotidiana proposta dalle parabole ci rimanda al mistero dell’opera di Cristo.

Questo ci fa comprendere anche il senso della Lettera ai Romani nell’insieme delle letture odierne: “Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” (8,18): ecco la logica della speranza di Gesù che semina nell’apparente fallimento, del seme contrastato che fruttificherà, del Servo sofferente che avrà successo. San Paolo ci dice che c’è una ardente aspettativa di tutta la creazione che geme, e anche noi gemiamo, nell’attesa della redenzione e della rivelazione della gloria dei figli di Dio. Questo fa pensare ai terreni-cuori infecondi che necessitano e più o meno inconsapevolmente attendono e sperano in un riscatto, in un liberazione. Il seminatore darà tutto se stesso per dissodarli: romperà le zolle, toglierà le pietre, brucerà i rovi, nel desiderio che i campi sterili diventino fecondi. Per questo il salmo responsoriale ci presenta proprio l’immagine di Dio come un contadino che si prende cura della terra e la porta a stillare abbondanza fino a farla gridare e cantare di gioia.

 


 

Copyright © omelie.org. Creato e gestito dallo staff di omelie.org