COMMENTO ALLE LETTURE

Il giudizio del cieco e la preghiera di chi vede


1. Primo sbigottimento

Dopo le folgoranti (e disturbanti) parole di domenica scorsa sull’amore al nemico (cf. Lc 6,27-38) oggi si potrebbe “tranquillamente” rileggere lo stesso Vangelo e ne avremmo ancora abbastanza per meditarci a lungo, per risentire tutto l’urto che provoca dentro, lì dove viene toccato il nostro io profondo, terreno, non ancora trasfigurato dallo Spirito. Potremmo infatti rivivere un numero imprecisato di volte lo sbigottimento provato da Simon Pietro alla vista delle sue reti tirate quasi fino a spezzarsi per il troppo carico, per troppa abbondanza di pesce (cf. Lc 5,1-11: V Domenica del tempo ordinario). È proprio troppo, anche per il migliore degli autoinganni. Il nostro vero volto viene scoperto e vediamo davvero in che situazione siamo davanti a Dio. Come?

Fissa in faccia il tuo nemico, quello che ti vuole proprio male, e riascolta quelle parole. «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano…». L’unica risposta giusta, probabilmente, è proprio quella di Pietro: «Allontanati da me perché sono un peccatore!». È troppo davvero. Siamo troppo diversi. Non riusciamo a sopportare chi vuole la finestra aperta quando è evidente (per noi) che c’è troppa corrente, figuriamoci chi volesse eliminarci fisicamente. Figli di Dio allora dobbiamo ancora diventarlo secondo tale prospettiva (cf. Lc 6.35: «sarete Figli dell’Altissimo» se amerete i vostri nemici), siamo ancora troppo terra terra (psichici, direbbe san Paolo). Tra il nostro rancore e il comando di Cristo c’è tutta la distanza abissale che (ancora) ci separa da Dio e dall’Uomo nuovo che in noi vorrebbe nascere.

Situazione paradossale: Pietro sentendo la sproporzione tra sé e il mistero di Dio che gli è salito sulla barca (dopo avergli chiesto il permesso) sta cominciando per la prima volta a vedere. E chi vede, o almeno intravvede la luce della verità fatta carne, non sale su una cattedra, ma segue le orme del Maestro che ha avuto il dono di incontrare, e diventa discepolo. Ne vuole sapere di più, si dichiara ignorante, non sapiente, non vedente. Bisognoso di una guida sicura. Chissà quanti consigli aveva dispensato a destra e a manca, quanti giudizi, quante facili condanne. Ma un cieco non può guidare un altro cieco, pena il dramma o il ridicolo di cadere entrambi in un fosso. Adesso è più facile accorgersene.

Dopo la vertigine di quel Vangelo, il Maestro oggi prosegue (cf. Lc 6,39-45) e indugia con tono sapienziale su alcune implicazioni che aveva già cominciato a spiegare. Prima fra tutte quella sul divieto di giudicare e di condannare. Espressioni che per il parallelismo sinonimico tipico della retorica ebraica si illuminano a vicenda. Non si tratta di astenersi dall’esprimere valutazioni sui fatti, ma di stare attenti a non confondere il peccato con il peccatore, per il quale anzi l’amore al nemico potrebbe esprimersi nelle stesse forme ruvide ma piene di benevolenza appassionata che Gesù stesso ha riservato ai suoi avversari o a intere comunità che non hanno riconosciuto la grazia di Dio qui e ora (cf. solo per rimanere nel vangelo di Luca, Lc 10,13-15; 11,42-54; 17,1; 22,22; ecc.). Sempre attuale al proposito l’ammonimento dell’apostolo Paolo: «Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi» (1Cor 14,20).

2. Secondo sbigottimento

Qui allora si tratta ancora una volta di “accorgersi” prima di tutto di come siamo messi di fronte a Dio e di fronte ai fratelli. Le insidie dell’autoinganno non danno tregua. L’uomo vecchio non vuole morire e cerca in tutti i modi di mimetizzarsi da uomo nuovo, ossia l’uomo gentile, premuroso, che fa tutto solo a fin di bene e ti chiede il permesso di aiutarti, avvicinandosi a te in punta di piedi.

Eppure – ecco lo sconcerto di oggi – perfino un atteggiamento formalmente rispettoso ed educato («Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio») può celare la trave di una totale cecità riguardo alla propria situazione di fronte alla Verità. Non quelle singole e contingenti “verità” che spesso scambiamo per l’Assoluto (e lo diventano pure! Come una finestra chiusa o aperta, un condizionatore-freezer o il riscaldamento tarato sul clima sub-sahariano), ma la Verità che si è appena rivelata come amore sconfinato e gratuito verso «gl’ingrati e i malvagi». È l’atteggiamento puntiglioso e permanente di chi passa al vaglio secondo per secondo tutti gli esseri umani che capitano a tiro per emettere in sequenza, senza soluzione di continuità, note di merito e di demerito, reazioni di stizza o malcelata sopportazione. E che poi magari fa lo sforzo sovrano di abbassarsi a “correggere” il fratello con regale sopportazione e denti stretti. Perché non può venire fuori la terribile verità che non solo non ama i nemici, ma nemmeno quelli con cui vive tutti i giorni, e che non sopporta come fossero nemici.

Può sembrare strano o perfino assurda l’idea che il Signore dell’Universo sia interessato alla nostra meschineria, e si metta a perdere tempo con noi con questi consigli sapienziali, ma evidentemente non può sopportare che la sua creatura più amata si renda a tal punto ridicola con questi atteggiamenti goffi e insensati (di fatto Lui stesso si rende ridicolo occupandosi di noi, ma queste sono solo alcune delle conseguenze dell’amore). È una insipienza che certo sul palcoscenico del cosmo non fa onore a chi ha imbastito questo spettacolo di gloria universale e aveva pensato all’essere umano nientedimeno come all’immagine del Figlio suo. La qualifica negativa di “ipocrita” (ossia di “attore”) qui è del tutto fuori luogo. Sei falso quando non ammetti il male che è in te, ma protagonista di una incredibile avventura quando accogli la Verità, che è Cristo.

Questo perché non devi impersonare un altro, ma vivere la verità della tua chiamata, assumere la verità del tuo limite, quand’anche fosse la devastante consapevolezza della propria cecità. Nella misura in cui cresce tale consapevolezza significa che stiamo già incominciando a vedere. E chi vede… prega! Supplica che il Maestro continui a fare il maestro. Perché noi come guide di noi stessi e di altri abbiamo già troppe volte fallito miseramente. Perché non abbiamo amato abbastanza. Ma non c’è amore senza verità. E se uno si autoinganna, non ingannerà pure gli altri? Allora… Signore che io veda! Fammi vedere quanto sono cieco. Perché questo è già vedere, è già ricollocarsi nella verità di se stessi, lì dove diamo il permesso a Dio di agire e trasformare tutta la nostra vita.

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