PASQUA: SIAMO VERAMENTE PIU’ BUONI?
 

“Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede” (1 Cor 15)

 


 

“Dunque il grido che caratterizza la Pasqua cristiana, l'annuncio «Cristo è risorto» (quello che i nostri fratelli ortodossi si scambiano come augurio nel tempo di Pasqua,

rispondendo «Cristo è veramente risorto»), è anche l'ultima parola sulla storia impietosa del cosmo e su tutte le tragiche vicende imposte dalla crudeltà dell'uomo.

Allora anche le catastrofi naturali ci spingono a far sì che la violenza che è nel cuore dell'uomo sia vinta da un senso più forte di compassione e di pietà.
Carlo Maria Martini

 

 


 

 

 

 

 

 

Anche quest’anno è arrivata Pasqua, ci siamo fatti gli auguri di pace e ogni bene come di consueto.

I cattolici praticanti hanno riempito le chiese e tutti ci siamo scambiati parole e gesti gentili, quasi affettuosi. I rancori, i dissidi, le antipatie e non solo, sono stati accantonati e superati dall’atmosfera pregna di armonia. Ma quanto è durato? Appena qualche giorno, forse nemmeno una settimana. Non ho mai capito l’ipocrisia che ci fa diventare buoni solo in occasione del Natale e della Pasqua. Come in tutte le cose, anche nella religione, noi viaggiamo in economia, applichiamo alla lettera i due precetti generali della nostra Chiesa: «Confessa i tuoi peccati almeno una volta all'anno» e «Ricevi il sacramento dell'Eucaristia almeno a Pasqua». Alla lettera non perché ci confessiamo e comunichiamo solo una volta l’anno, ma perché forse lo facciamo così bene solo in occasione del Natale e della Pasqua, altrimenti come si spiegherebbe che basta rivedere, qualche giorno dopo le Feste, le stesse persone con cui avevamo avuto reciproci amabili atteggiamenti, per renderci conto che tutto è tornato come prima: l’antipatia, l’incompatibilità e la repulsione hanno preso di nuovo il sopravvento. Almeno noi cattolici dovremmo, anche nelle piccole cose, impegnarci a dare il giusto senso al Natale e alla Pasqua, operare sempre concretamente con segni tangibili di riconciliazione e di pace. Sarebbe sufficiente che ciascuno, dopo le due grandi Feste del cristianesimo, nel proprio piccolo mondo in cui vive si riappacificasse con il vicino con cui ha avuto degli screzi e con cui ha interrotto ogni rapporto di buona convivenza. Ciò per dare un bell’esempio agli altri, alla classe dirigente (soprattutto ai rappresentanti delle Istituzioni) perché anch’essi arrivino a comprendere il vero senso delle Festività. Penso da ottimista che sarebbe possibile vivere in un mondo migliore solo se ognuno si adoperasse per migliorare la convivenza in una società dove esista un buon rapporto reciproco tra le persone.  Ricordiamoci sempre del granello di senape, il più piccolo di tutti i semi che, una volta cresciuto, produce il più grande delle altre piante dell’orto, un vero e proprio albero. Questo è quello che può generare nella società l’esempio che tutti noi cattolici dobbiamo dare per migliorare lo stare insieme in una comunità. C’è un documento che la Chiesa ha emanato il 28 ottobre 2013: “VIVERE INSIEME PER UNA CIVILTA’ DELL’AMORE” in occasione del quarantottesimo anno dalla promulgazione della dichiarazione “Gravissimum educationis” del Concilio Vaticano II, che in una sua piccolissima parte sintetizza bene la visione cristiana del vivere insieme: “Alla luce del mistero trinitario di Dio, la relazionalità va vista non solo nella sua processualità comunicativa, ma come Amore, legge fondamentale dell’Essere, un amore non generico, indistinto e puramente ancorato alle emozioni, legato alla convenienza o alle regole di scambio, ma “gratuito”, altrettanto forte e generoso quanto l’amore con cui Gesù Cristo ha amato. In questo senso, l’amore è volontà di “promozione”, fiducia nell’altro e, di conseguenza, è un atto fondamentalmente educativo”. D’altra parte sempre la Chiesa cattolica si è battuta per combattere l’individualismo (purtroppo con scarsi risultati): l’obiettivo è quello di convincere le sue comunità che Gesù ha salvato tutti. Papa Francesco a Santa Marta nell’omelia della Messa del 29 gennaio scorso ha ripetuto per l’ennesima volta che ci si salva “in un popolo”. Ha parlato dei criteri per non seguire i modelli sbagliati. E uno di questi modelli sbagliati è privatizzare la salvezza. E’ vero” – ha detto – Gesù ci ha salvati tutti, ma non genericamente. Tutti, ma ognuno, con nome e cognome. E questa è la salvezza personale. Davvero io sono salvato, il Signore mi ha guardato, ha dato la sua vita per me, ha aperto questa porta, questa via nuova per me, e ognuno di noi può dire ‘Per me’. Ma c’è il pericolo di dimenticare che Lui ci ha salvato singolarmente, ma in un popolo. In un popolo. Sempre il Signore salva nel popolo”. Perché ho detto che i messaggi che la Chiesa cattolica ha sempre lanciato al suo popolo per vivere cristianamente in comunità non hanno avuto l’accoglienza sperata? Perché alcuni dati statistici sulla qualità della vita nei vari paesi del mondo hanno stabilito che ai primi posti delle classifiche ci sono sempre quelli che hanno un modello fortissimo di comunità. E noi, purtroppo siamo sempre relegati agli ultimi posti, proprio grazie al nostro modello basato sull’individualismo, il patto di reciproco disinteresse tra i singoli individui. Tradotto in linguaggio religioso: “mi salvo io, al massimo la mia famiglia e il mio clan, degli altri non m’interessa”. Un ultimo rapporto, quello annuale sulla felicità redatto dall’ONU, interpellando i cittadini del mondo intero su indici che vanno dal reddito economico alla qualità dei rapporti umani e al livello di corruzione, noi siamo cinquantesimi dietro l’Uzbekistan. Agli ultimissimi posti, ovviamente, ci sono le nazioni in guerra o tormentati dalla fame, ai vertici l’intera Scandinavia – prima assoluta la Danimarca – poi, la Svizzera, l’Olanda e il Canada. Proprio quei paesi dove è consolidata e intensamente praticata la vita comunitaria la gente è più felice. Invece il paese dell’individualismo e dei furbi non è un paese felice. Chiudo con le parole di papa Francesco del messaggio pasquale “Urbi et Orbi” di quest’anno: “…L’annuncio gioioso della Pasqua: Gesù, il crocifisso, non è qui, è risorto (cfr Mt 28,5-6) ci offre la consolante certezza che l’abisso della morte è stato varcato e, con esso, sono stati sconfitti il lutto, il lamento e l’affanno (cfr Ap 21,4). Il Signore, che ha patito l’abbandono dei suoi discepoli, il peso di una ingiusta condanna e la vergogna di una morte infame, ci rende ora partecipi della sua vita immortale e ci dona il suo sguardo di tenerezza e di compassione verso gli affamati e gli assetati, i forestieri e i carcerati, gli emarginati e gli scartati, le vittime del sopruso e della violenza. Il mondo è pieno di persone che soffrono nel corpo e nello spirito, mentre le cronache giornaliere si riempiono di notizie di efferati delitti, che non di rado si consumano tra le mura domestiche, e di conflitti armati su larga scala che sottomettono intere popolazioni a indicibili prove...”. Bisognerebbe meditare costantemente sul significato della Pasqua per noi cattolici, come ci insegnano le Sacre Scritture e il Magistero della Chiesa e applicarne il messaggio nel mondo laico dando il buon esempio per saper vivere in comunità nel rispetto degli altri, soprattutto gli ultimi. Ci riusciremo mai?

 

Roma, 1 aprile 2016                                                                                                                               Gian Paolo Di Raimondo