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don Pino Pulcinelli

 
 
 

Il “terrorismo non-violento”


 

La reazione del governo israeliano di fronte al fatto che ogni venerdì i cittadini palestinesi si recano al muro per protestare chiedendone l’abbattimento senza lanciare pietre, senza ricorrere a nessun atto di violenza, con i credenti in preghiera, è stata quella di denominare tale marcia “terrorismo non-violento”. Ci vuole tanta immaginazione per definire terrorismo la non-violenza!  Su questo argomento dispongo di una personale esperienza fatta in un recente viaggio in Palestina: a Betlemme ho visitato il Baby Hospital, l’unico ospedale medico pediatrico di tutto il paese, gestito da suore italiane francescane elisabettine e ho potuto constatare direttamente la condizione di completo isolamento in cui vivono i palestinesi. L'ospedale, mi ha raccontato suor Donatella Lessio responsabile del Quality Care Management e della Formazione del personale, soffre sia per il blocco dei medicinali provenienti dall’Italia da parte della dogana israeliana che li tiene in magazzino per alcuni mesi e spesso li consegna quando sono scaduti, sia per le difficoltà e le lungaggini burocratiche causate dal muro che impediscono un veloce trasferimento di un bambino che ha bisogno di un intervento chirurgico in un ospedale specializzato di Gerusalemme. La perdita di prezioso tempo a causa degli inutili controlli al check point e il cambio di ambulanza (in Israele non è consentito l’accesso delle ambulanze palestinesi) a volte compromettono la vita del bambino trasportato. Suor Donatella si sofferma puntigliosamente ad elencare le numerose difficoltà in cui opera la struttura e lo stato di segregazione di tutto il popolo palestinese specialmente a Gaza ritenuta ormai, anche da molti organismi internazionali, una prigione a cielo aperto per un milione e mezzo di abitanti. Poi aggiunge che anche lei, con altre quattro consorelle dell’ospedale, si reca ogni venerdì al muro, percorrendo quei 150 metri che separano la struttura del Baby Hospital dalle lastre di cemento armato alte dieci metri che strangolano Betlemme, per fermarsi davanti ai militari israeliani del check point e recitare il rosario. Suor Donatella e tante altre persone di buona volontà laiche e credenti - compresi molti ebrei - ormai confidano molto in queste azioni non-violente per sensibilizzare i governanti israeliani e del mondo intero ad operarsi per porre fine all’attuale stato di guerra che si perpetua da intere generazioni; i cristiani lo fanno con l’unica arma che conoscono, la preghiera. La suora chiede a tutti i visitatori pellegrini in Terra Santa di unirsi a loro nella preghiera del venerdì affinché sia abbattuto il muro e anche il popolo palestinese possa finalmente godere dei diritti delle persone umane riconosciuti in tutti i paesi liberi. In quel viaggio sono stato pure a visitare lo Yad Vashem, il museo di Gerusalemme sulla Shoah; ne sono uscito con una forte emozione e addirittura un malessere fisico che mi ha tenuto compagnia per tutto il resto del pellegrinaggio. La visione delle barbarie che gli ebrei hanno subito fino alla metà del secolo scorso fa meglio comprendere il loro attaccamento quasi morboso all’attuale patria per tanto tempo desiderata mentre vagavano per il mondo. Nel museo mi è rimasta impressa l’immagine di una carta geografica dove è indicata la presenza degli ebrei nelle varie nazioni prima della creazione del loro Stato: in alcune sono stati perseguitati ed uccisi, in altre osteggiati ed isolati e in altre ancora sopportati con diffidenza. Non c’è stato un paese in cui hanno potuto vivere normalmente accettati ed integrati. Proprio la visita allo Yad Vashem mi ha sollecitato la domanda di come mai i governanti e la maggioranza della popolazione che hanno subito tante umiliazioni e sofferenze si comportino in questo modo nei confronti di un altro popolo ugualmente disgraziato da far lanciare da alcuni israeliani coraggiosi il seguente appello: “voi, i nostri antenati, venite a vedere dove i nostri governanti hanno portato questo paese, dimenticando i valori umani fondamentali dell’ebraismo”. E’ proprio vero che nella storia gli esempi di popoli che imparano dalla propria storia non abbondano! So bene che Hamas ha lanciato missili sulle città israeliane e rappresenta un pericolo costante per le azioni terroristiche che comunque sono inaccettabili, ma capisco anche che la costante presenza di mezzi militari possa far degenerare la reazione popolare. Non si dovrebbe mai arrivare a tali forme di esasperazione. Penso sia necessario che il più forte, Israele, faccia il primo passo con un atto unilaterale di buona volontà per proseguire le trattative supportate dagli USA e giungere ad una pacificazione derivante da un possibile compromesso politico. Sarà possibile? Chissà. Altrimenti veramente non ci resta che sperare in un intervento, sollecitato dalla preghiera, dell’unico Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani perché nella patria delle tre religioni monoteiste non ci sia più spargimento di sangue e il popolo di Dio tutto possa convivere nella pace. Seguendo il mio ottimismo, voglio concludere con una nota positiva: negli ultimi anni anche molti ebrei – intellettuali e persone di notorietà internazionale per il loro fervore di democrazia e di pace, come Stéphane Hessel – stanno impegnandosi seriamente con l’obiettivo che finalmente possa terminare in quella terra martoriata lo stato di guerra permanente. La speranza non ci deve abbandonare mai!

 

Gian Paolo Di Raimondo

 

Nato in Ancona il 2 marzo 1936 – diplomato a Camerino nel 1955.

Dal 1959 al 1989 impiegato/dirigente/direttore di aziende multinazionali (Olivetti, General Electric, Philips e Siemens). Conseguito il diploma di “Operatore della carità” all’Istituto Superiore di Scienze Religiose Ecclesia Mater presso l’Università Lateranense nel 2008, oggi è volontario Caritas.
Via Copenaghen, 10 – 00144 Roma