IL  MIRACOLO  OLIVETTI

La forza di un sogno

 

 

 

 

Ancora una volta mi piace soffermarmi a condividere, in qualità di testimone, alcune riflessioni su un argomento di storia del 900 che ha lasciato il segno: l’ho fatto recentemente sul Concilio Vaticano II, pietra miliare della Chiesa, lo faccio ora sull’Olivetti, esempio aziendale che ancora suscita interesse di studiosi del capitalismo umano.

E’ recente uno studio che rievoca la “fabbrica a misura d’uomo” creata da Adriano Olivetti con la sua innovativa visione di un particolare welfare system aziendale. Nel rievocare l’Olivetti degli anni ’50 – ’60 consegue l’obbligo di legare la figura di Adriano Olivetti a quella di Steve Jobs per la loro comune passione per il futuro.

Per ricordare Adriano Olivetti e le sue intuizioni Michele Fasano per la “Sattva Films” ha realizzato il film ritratto: “In me non c’è che futuro …”. Anch’io mi sono formato professionalmente in Olivetti agli albori dell’informatica e quindi, anche se parzialmente, posso raccontare per averlo vissuto quel sogno di una visione tecnologica del mondo che si realizzerà in termini compiuti solo qualche decina di anni dopo con Jobs.

In questa sede, però, non voglio rievocare il lungo cammino dello sviluppo delle tecnologie per il trattamento automatico dei dati e delle informazioni: dalle schede perforate e dal progetto Elea al primo personal computer al mondo, il Programma 101. Intendo solo ricordare la figura di Adriano Olivetti e il modello di azienda da lui costruito anche dando vita  alle idee illuminate di suo padre Camillo, ma soprattutto applicando, oltre che a se stesso, a tutto il suo management “l’orgoglio di essere dei sognatori”. Da suo padre aveva ereditato e messo in pratica il dictat datogli quando lo nominò direttore generale: “Tu puoi fare qualunque cosa per motivi di introduzione di nuovi metodi tranne licenziare”. Ma Adriano volle fare molto di più per costruire un’azienda che valorizzava la centralità dell’uomo, applicò sempre questa regola: “l’uomo e l’organizzazione [aziendale] devono costituire un equilibrio armonico … La sopravvalutazione dell’organizzazione porta a trascurare il valore delle persone”.

Il suo costante impegno fu quello di far coincidere i bisogni dei dipendenti con quelli dell’azienda e per questo i servizi del personale Olivetti si adoperarono per organizzare una comunità comunicante, un tipo di management a porta aperta. Arricchì inoltre la sua attività imprenditoriale di concetti umanistici, urbanistici ed editoriali. Già dal 1937, in piena epoca fascista, usò il termine welfare system con cui definiva un sistema in cui “ogni lavoratore dell’azienda contribuisce con il proprio lavoro alla vita dell’azienda medesima e potrà pertanto accedere all’istituto assistenziale e richiederne i benefici senza che questi possano assumere l’aspetto di una concessione a carattere personale nei suoi riguardi”. Su questa innovativa base costituì per i dipendenti Olivetti l’assistenza sanitaria integrativa, il sostegno alla famiglia tramite assegni familiari, le attività ricreative culturali e formative, le case per i dipendenti, gli asili nido, le colonie estive, le scuole con relative borse di studio.

Tutto ciò gli procurò feroci strali dal mondo industriale, soprattutto dai più noti e importanti imprenditori nazionali (in special modo quelli piemontesi). Anche la mia famiglia ha goduto del suo welfare system e posso testimoniare che all’Olivetti degli anni ’60 erano stati risolti molti dei problemi che assillano ancora oggi la nostra società civile per la carenza di servizi che rendano possibile - per esempio - alla donna di conciliare il suo impegno nell’ambito familiare con l’attività di lavoro esterno. Di fatto Adriano Olivetti si è spinto poi ancora molto più in là, ha inventato (almeno in Italia) il concetto di Corporate Social Responsibility. Ha configurato l’urbanistica del Canavese e non solo, chiedendo il contributo dei migliori architetti, urbanisti e designer a livello mondiale (Le Corbusier, Zevi, Sottsass) ed è stato un editore innovativo con le Edizioni di Comunità facendo conoscere in Italia i testi di Schumpeter, Taylor, Kierkegaard, Weil, Maritain, Maraini, … . Per fare dell’Olivetti anche un cenacolo di cultura ha chiesto la collaborazione di poeti (Giudici, Sinisgalli), scrittori (Volponi, Soavi), sociologi (Ferrarotti, Ottieri), letterati (Pampaloni, Fortini), economisti (Fuà). Spesso rivendico in pubblico il fatto che il mio responsabile del personale a Ivrea fosse Paolo Volponi: è un’esperienza di cui solo pochi si possono vantare. Normalmente i capi del personale devono avere - specialmente oggi - il pelo sullo stomaco e non la sensibilità di uno scrittore. Adriano Olivetti poteva farlo forse perché, come aveva promesso a suo padre, non ha mai licenziato nessuno.

Nel periodo della mia permanenza ad Ivrea si raccontava un fatto molto significativo per comprendere il rapporto che il padrone Adriano Olivetti aveva con i suoi operai e che dimostrava come nella sua azienda fosse stata completamente superata la lotta di classe. In uno degli scioperi indetti dalle organizzazioni sindacali metalmeccaniche nazionali a cui le maestranze Olivetti aderirono pochissime volte (normalmente le richieste sindacali nazionali erano da tempo già superate a livello di contrattazione aziendale), la famosa “fabbrica di mattoni rossi” fu occupata. Dopo qualche giorno Adriano Olivetti fece caricare nella sua macchina alcune ceste di panini imbottiti e diversi fiaschi di vino e li portò in fabbrica introducendoli da una finestra. Disse che si rendeva conto che gli operai, non essendo tornati a casa da alcuni giorni, dovevano essere sfamati.

Così si realizzava la lotta sindacale in Olivetti. Alla sua morte nel 1960 lasciò un’azienda multinazionele operativa in Europa, America Latina e Stati Uniti (nel 1959 aveva acquisito il controllo della Underwood, azienda leader nel settore delle macchine da scrivere) che occupava 25.000 dipendenti. L’Olivetti, oltre ad essersi affermata a livello internazionale nel settore dei prodotti per l’ufficio passando dalla tecnologia meccanica a quella elettronica, stava intraprendendo il grande salto nel settore dei computers mettendosi in diretta competizione con l’IBM. Per questo trovo indovinato paragonare Adriano Olivetti a Steve Jobs, ambedue hanno perseguito il sogno di sviluppare l’elettronica per soddisfare un mondo invaso dalle tecnologie, il primo ha provato a realizzarlo ma non c’è l’ha fatta poiché i tempi non erano maturi, il secondo ha trovato tutte le condizioni favorevoli a contorno e quindi è riuscito ad attuarlo segnando un cambio culturale nell’epoca moderna.

Una volta morto Adriano è venuto meno il suo impulso creativo e nel giro di una decina d’anni, anche a causa del cambiamento radicale delle strategie aziendali, l’Olivetti ha iniziato il suo inarrestabile declino che l’ha portata all’attuale coma irreversibile. Peccato. Abbiamo perso la grande occasione di condividere a livello mondiale il mercato sempre più ricco e ad alto valore aggiunto delle tecnologie dell’informazione. Manco a dirlo, nei governi che si sono susseguiti, è sempre mancata una benché minima programmazione industriale.

Un’ultima considerazione anche sul modello di welfare aziendale introdotto da Adriano Olivetti che ha contagiato solo alcuni  grandi gruppi e qualche realtà aziendale (a titolo esemplicativo, Telecom Italia, Luxottica, Enel, Eni, Poste Italiane, Tod’s): non sarebbe opportuno che si diffondesse a livello generale per creare le condizioni per la realizzazione di un “modello di relazioni industriali partecipativo” e contribuire al superamento della crisi in assenza di tensioni sociali? Purtroppo ciò che sta accadendo in FIAT indica un tutt’altro modello. Chissà se il prossimo governo del paese che uscirà dalle urne nella primavera 2013 finalmente si porrà l’obiettivo primario di un lungimirante piano di sviluppo industriale?  Sarebbe ora che non si ripetessero più casi come quello dell’Ilva di Taranto.

Gian Paolo Di Raimondo

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Roma, 1 dicembre 2012