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don Pino Pulcinelli

 
 
 

Il diritto al lavoro



I recenti dati sulla disoccupazione pubblicati dall’Istat rilevano che a novembre 2010 il tasso globale ha raggiunto l’8,7%, il più alto dall’inizio delle serie storiche mensili, ovvero dal gennaio del 2004. Ma non è questo dato che mi preoccupa, in quanto risulta essere in linea con la media della zona euro, addirittura ancora leggermente al di sotto, quindi rappresenta la tragica conseguenza della crisi mondiale. Quello che, a mio avviso, è allarmante e dovrebbe preoccupare l’intera nostra classe politica per trovare urgentemente opportuni rimedi, è il dato sulla disoccupazione giovanile (15 – 24 anni) che è salita al 28,9%. Le persone in cerca di un’occupazione a novembre erano 2.175.000. Altra constatazione derivante dai dati pubblicati è che la crescita del tasso di disoccupazione riguarda soprattutto le regioni centrali e meridionali dove si allarga l’area delle lavoratrici femminili che perdono il posto di lavoro. Anche questi dati confermano che il paese è diviso in due e che la nostra classe politica, in tanti anni e con troppi tentativi inutili, non è mai riuscita ad evitarlo. Rimanendo ai dati nazionali, credo sia necessario soffermarsi per cercare di analizzare le cause della crisi occupazionale e del mancato rilancio dell’economia a seguito principalmente della recessione mondiale che abbiamo purtroppo dovuto subire, ma anche per mancanza di opportuni incentivi statali alla crescita. La privazione  del diritto al lavoro rappresenta una violazione dell’art. 4 della Costituzione e, per noi cattolici, del principio di sussidiarietà, uno dei fondamenti della Dottrina Sociale della Chiesa, nella quale è determinante il concetto che ogni persona deve essere rispettata nella sua dignità e messa nella condizione di potersi esprimere per contribuire al bene della società in cui vive. Come può una persona esprimere le sue capacità se gli si nega il diritto al lavoro e quindi a camminare con le proprie gambe? Mi piace notare che per arginare l’alto tasso di disoccupazione, l’unico pilastro che ancora regge a sostegno della società civile tutta, è la famiglia. Ma per quanto potrà ancora sostenere da sola il peso di una crisi tutt’ora dilagante senza un minimo sostegno dello Stato? L’ultimo monito del Ministro Tremonti sul perdurare della crisi spegne ogni minima speranza di un intervento del governo per la riforma fiscale con l’introduzione del tanto sperato “quoziente familiare”; ancora per chissà quanto tempo, quindi, la famiglia dovrà sostenere solo con il suo oculato risparmio (che però si va esaurendo) il peso di una crisi epocale. Purtroppo, nel tempo di una generazione, il rapporto economico tra genitori e figli si è invertito: mentre io e mia moglie da figli aiutavamo economicamente i nostri genitori pensionati, oggi da genitori dobbiamo aiutare i nostri figli. E’ del tutto ovvio che gli errori di gestione della “cosa pubblica” risalgono agli anni che hanno fatto esplodere il debito pubblico in termini incontrollati e che, quindi, al di là dell’attuale crisi mondiale che il paese ha dovuto subire, oggi tale debito non ci permette di assegnare nemmeno limitate risorse ad investimenti produttivi che rilancino l’occupazione giovanile. I pochi soldi a disposizione sono stati usati in favore degli occupati alimentando le varie “casse integrazioni” e quindi nulla si è fatto per far crescere la richiesta di nuovo lavoro. Per anni, purtroppo si è vissuto al di sopra delle nostre possibilità ostentando una falsa ricchezza ed oggi ne paghiamo le conseguenze (ricordiamoci “la cigale et la fourmi”). Anche nella seconda Repubblica errori ne sono stati fatti e come! Basti fermarsi a constatare la distonia esistente nella ripartizione delle risorse nell’ambito dei vari ceti sociali della popolazione: recentemente Bankitalia ha rilevato che quasi la metà della ricchezza nazionale è concentrata sul 10% delle famiglie. Non è questa un’anomalia? A mio avviso sarebbe necessaria una maggiore attenzione nell’applicazione della giustizia sociale e della legalità che sono alla base del vivere civile. Mi sembra utile allo scopo un breve richiamo ad un interessante documento della Cei sulla legalità del 1991, ma ancora oggi di grande attualità, soprattutto per l’argomento trattato del “diritto al lavoro”. Il documento indica la legalità come uno “stile di vita” – quindi ne suggerisce un’adeguata educazione – e stigmatizza che la Chiesa e ogni cristiano non possano accontentarsi di enunciare norme di principio, ma è necessario “entrare nella storia e affrontarla nella sua complessità, promovendo tutte le realizzazioni possibili dei valori evangelici e umani della libertà e della giustizia. In questo la Chiesa e i cristiani si fanno ‘compagni di strada’ con quanti cercano di realizzare il bene possibile”. Sono convinto che non si possa mai raggiungere il “bene possibile” in una società che non consideri il diritto al lavoro quale fondamento della democrazia, come peraltro recita l’art. 1 della nostra Costituzione.
Gian Paolo Di Raimondo

Gian Paolo Di Raimondo