IL CRISTIANESIMO E L’ISLAM DEVONO CONVIVERE

 

 

 

E’ necessario ogni sforzo dei massimi vertici delle due religioni mondiali affinché Cristiani e Musulmani possano, nel prossimo futuro, vivere nella pace e nella fratellanza. Questo hanno iniziato a farlo, soprattutto nell’incontro storico di Abu Dhabi il 4 febbraio scorso, Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb con la stesura e sottoscrizione del “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”.

 

Il dialogo con l’Islam avvenga e resti costante nel tempo!

 

Il dialogo tra il Cristianesimo e l’Islam sia fattore decisivo per la pace nel mondo di oggi”. L’ha detto papa Francesco nell'udienza generale dopo il viaggio compiuto negli Emirati Arabi Uniti. “Un viaggio breve ma molto importante - ha sottolineato - che, riallacciandosi all'incontro del 2017 ad Al-Azhar, in Egitto, ha scritto una nuova pagina nella storia del dialogo tra cristianesimo e Islam e nell'impegno di promuovere la pace nel mondo sulla base della fratellanza umana”.

 

 

Questa volta a indurmi a riscrivere sull’Islam per approfondire l’evoluzione del rapporto interreligioso con il nostro cristianesimo è stata la lettura del “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” sottoscritto da papa Francesco e dall’Imam Ahmad Al-Tayyeb.

Con questo storico documento si prosegue il dialogo con l'Islam sunnita già intrapreso nel 2016, quando furono riaperti i colloqui con l'università al Azhar del Cairo. Da allora, Papa Francesco e il Grande Imam Ahmed El Tayyeb si sono incontrati quattro volte, e si incontreranno di nuovo nella prossima riunione sulla Fraternità Umana organizzato da Mohamed bin Zayed al Nahyan, principe ereditario di Abu Dhabi. Non c’è dubbio che con le previsioni in atto sull’espansione futura dell’Islam in Europa è da promuovere un fattivo e duraturo rapporto di convivenza tra la religione cristiana e quella musulmana. Anche il gesuita Samir Khalil Samir, filosofo e teologo egiziano, docente all’Università Saint Joseph di Beirut e al Pontificio Istituto Orientale di Roma, è convinto che solo un’effettiva integrazione degli immigrati in Europa di religione musulmana con il rispetto delle loro specificità potrà sfatare i pregiudizi sul cristianesimo e la Chiesa ancora molto radicati nei Paesi d’origine. Milioni di arabo-musulmani, vivendo in emigrazione, hanno già imparato ad apprezzare – sempre secondo Khalil – la democrazia, il pluralismo, i diritti umani, la centralità della persona. In Europa, quindi, i musulmani possono apprezzare la positività del rapporto tra religione e Stato, capire che la laicità non è l’anticamera dell’ateismo, ma la possibilità di costruire una società che non discrimina sulla base dell’appartenenza religiosa, ma mette al centro la persona e i suoi diritti. Tutto ciò può avvenire – termina Khalil – sempre che l’Europa non metta in discussione i fondamenti su cui ha costruito la sua storia. Da parte cristiana è importante testimoniare che fede e modernità possono camminare assieme, che la democrazia non è nemica della religione, che il principio di cittadinanza porta in sé anche quello della tolleranza e della tutela delle minoranze, senza per questo sconfinare in un multiculturalismo anonimo e indifferenziato che può diventare la premessa per la moltiplicazione di ghetti anziché favorire una reale integrazione.

Purtroppo fino a ieri le religioni monoteiste sono finite inevitabilmente per avere una deriva integralista, forse proprio per la pretesa esclusivista della verità che le accomuna tutte. E’ arrivato il tempo di un’inversione di tendenza che può e deve essere il comune impegno dell’Occidente e del mondo arabo; deve prevalere, quindi, l’impegno comune per la ricerca della conoscenza reciproca per capire quello che unisce e per non farsi condizionare troppo da quello che divide. Penso che ormai nei mondi religiosi ci si sia resi conto di non poter vivere a prescindere dall’esistenza degli altri. La Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II parlava esplicitamente di dialogo con ebrei, musulmani e con le religioni orientali. Giovanni Paolo II sorprese tutti con la sua visita nel 1986 alla sinagoga di Roma e con l’organizzazione dell’incontro tra le religioni ad Assisi, dove si è affermato con forza che il dialogo non ha come obiettivo l’unificazione delle religioni, né l’identificazione di una verità comune. Il dialogo è convivenza, è conoscenza, non deve mirare a convertire ma a trasformare. L’ultimo positivo rapporto tra Cristianesimo e Islam si è realizzato proprio il 4 febbraio scorso e vorrei terminare questo mio intervento proprio analizzando alcuni passi cruciali del documento che ne è scaturito. 

Inizia con la citazione del valore trascendente della fede che condiziona l’intero documento. La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere. Questi i punti principali che si mettono in risalto per presentare il documento: 1) In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera. 2) In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante. 3) In nome della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali. In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini. 3) In nome di Dio e di tutto questo, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio.

I due capi religiosi proseguono con un accorato appello a loro stessi e ai Leader del mondo, agli artefici delle politiche internazionali, ai responsabili dell’economia mondiale perché s’impegnino seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace, intervengano al più presto per fermare lo spargimento di sangue innocente e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino culturale e morale che il mondo in questo periodo vive. Un simile appello lo rivolgono anche agli intellettuali, ai filosofi, agli uomini di religione, agli artisti, agli operatori dei media e agli uomini di cultura in ogni parte del mondo, affinché riscoprano i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fratellanza umana e della convivenza comune, per confermare l’importanza di tali valori come ancora di salvezza per tutti e cercare di diffonderli ovunque.

Quindi, fatta un’analisi storica, affermano che l’estremismo religioso e nazionale e l’intolleranza hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente, ciò che potrebbe essere chiamato i segnali di una «terza guerra mondiale a pezzi», segnali che, in varie parti del mondo e in diverse condizioni tragiche, hanno iniziato a mostrare il loro volto crudele; situazioni di cui non si conosce con precisione quante vittime, vedove e orfani abbiano prodotto. Inoltre, ci sono altre zone che si preparano a diventare teatro di nuovi conflitti, dove nascono focolai di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi. E proseguono che le forti crisi politiche, l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra – hanno generato, e continuano a farlo, enormi quantità di malati, di bisognosi e di morti, provocando crisi letali di cui sono vittime diversi paesi, nonostante le ricchezze naturali e le risorse delle giovani generazioni che li caratterizzano. Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e della fame –, regna un silenzio internazionale inaccettabile.

Affrontano poi l’argomento a mio avviso molto importante perché legato al ruolo che rivestono, quello religioso, rilevando con vigore che Dio ci ha concesso il dono della vita per custodirlo. Nessuno ha il diritto di minacciarlo e quindi condannano tutte le pratiche che minacciano la vita. Altresì dichiarano – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici e economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente.

Il documento congiunto, poi, sottolinea l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale attestando che esse devono restare ancorate ai valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune. Sancisce il diritto della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione e quindi afferma che il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono sapiente volontà divina. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano. Altri messaggi inclusi nel documento comune sono quelli che la giustizia deve essere basata sulla misericordia, il dialogo, la comprensione, la tolleranza e la convivenza tra gli esseri umani per contribuire a ridurre molti problemi economici, politici e ambientali oggi presenti in gran parte del genere umano; il dialogo tra i credenti per investire i valori spirituali, umani e sociali comuni nella diffusione delle più alte virtù morali; la protezione dei luoghi di culto è un dovere garantito dalle religioni, dai valori umani, dalle leggi e dalle convenzioni internazionali; infine, data l’errata interpretazione dei testi religiosi, è necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.

Vi sembra poco? A me sembra una svolta storica.

Gian Paolo Di Raimondo – 1° aprile 2019

 

 

Mi sembra interessante aggiungere al mio articolo un “pezzo” scritto dal mio amico Umberto Rapetto per “In Terris” il 19 marzo scorso. Trovo la sua riflessione sull’attentato di Christchurch, in Nuova Zelanda, dove sono stati compiuti il 15 marzo due attacchi in due moschee della città che hanno provocato la morte di 49 persone, perfettamente in linea con la mia idea di pacificazione che ha ispirato il presente “approfondimento”.

 

MARTEDÌ 19 MARZO 2019, 12:50, IN TERRIS

Il Parlamento neozelandese riapre con una preghiera dell’Imam

Un momento di commozione, con invocazioni sia in arabo che in inglese per dimostrare coesione e vicinanza

UMBERTO RAPETTO

Il massacro di Christchurch ha paralizzato la vita neozelandese. Lo choc ha fermato anche la politica e il Parlamento neozelandese ha ripreso i lavori ieri con una iniziativa sorprendente. Le attività sono state precedute da una commovente preghiera recitata all’Imam Nizam ul haq Thanvi. Commovente anche se in arabo e da quelle parti non lo si parli, perché le emozioni si innescano anche solo con le vibrazioni della voce, le intonazioni, i più impercettibili gesti, perché il cuore sente e traduce senza bisogno di interpreti. Il rispettoso silenzio di chi era in aula è poi proseguito con invocazioni in inglese dispensate da Tahir Nawaz, presidente della International Muslim Association of New Zealand. Invece di dar luogo al solito (e altrettanto inutile) “question time”, maggioranza e opposizione hanno scelto di dimostrare così la loro coesione e la loro vicinanza alle vittime della strage e ai loro famigliari.

I toni – anziché impennarsi con i torrenziali vomiti di post e tweet dalle espressioni incandescenti – si sono affievoliti nel rispetto di chi ha pagato con la vita il gesto di un criminale dalla lucida follia. Abituati ad etichettare le violenze più efferate con matrici religiose o ideologiche, stavolta nessuno ha parlato di “terrorismo cristiano” come nessun altro dovrebbe identificare “islamico” quello di chi semina la morte ostentando una fede che certamente non ha. Integralismi e intolleranze sono il concime della mala pianta i cui frutti riempiono le pagine della cronaca e addolorano chi – nella rispettiva comunità – professa un credo senza dubbio estraneo a certi comportamenti. Religione e fede come alibi per chi colpisce, come scusa per fomentare gli animi sull’altro versante.

Quei cinquanta morti sono benzina gettata sul fuoco inestinguibile dell’odio, sono un tassello di un domino che è destinato a cadere sul successivo e proseguire in un indesiderato crollo di ogni pezzo sistemato in sequenza. La sparatoria di Utrecht di ieri è solo un minuscolo sussulto e le forze di polizia temono il verificarsi di altri episodi di estrema efferatezza: le dinamiche emulative hanno una propagazione incontrollabile ed imprevedibile e quindi c’è da aspettarsi di tutto e ovunque. Gli imbecilli sono uguali in tutto il mondo, a prescindere dalla loro etnia o ideologia, e la loro competizione coinvolge sempre gente innocente. Il verificarsi di episodi tanto dolorosi è spesso seguito dalla partecipazione emotiva di un pubblico che – grazie ai social o maledetti loro – esprime commozione o incredibilmente gioisce per la malefatta incitandone la reiterazione.

Internet è l’habitat della “propaganda”, spesso fine a se stessa. sovente volta a raccattare consensi non importa da chi e non importa con quali conseguenze. Se la macchina della persuasione – più o meno urlata – non la si può fermare (in nome della libertà di espressione ci sarebbe sempre qualcuno pronto a lamentare una presunta censura), se i leader politici sono convinti di mietere successi seminando rancore e acrimonia (incuranti della devastazione sociale cui danno forma), se i cattivi esempi sono i più facili a seguirsi, se la prevaricazione è fraintesa e immaginata come far valere i propri diritti, probabilmente è necessario trovare il tasto “reset” sul telecomando del vivere quotidiano e reimpostare il nostro domani. Probabilmente si dovrebbe “vaccinare” la popolazione e soprattutto quella che si muove in Rete nella più incosciente inconsapevolezza. L’educazione è il miglior siero, la cultura il più efficace antidoto: il disastro, forse, lo si può ancora evitare.

Tahir Nawaz alla vista degli omaggi floreali lasciati dinanzi alle moschee prese a bersaglio ha detto “ciascun fiore con la propria storia è un singolo messaggio che viene dal più profondo del cuore. Questi messaggi ci toccano da vicino perché arrivano dalla vera gente della Nuova Zelanda”. Altrove la reazione sarebbe arrivata con una diretta Facebook o un video su Instagram la cui violenza verbale avrebbe soddisfatto solo chi si abbevera di livore. Ma l’ostilità, anche la più feroce, non disseta nessuno e – anzi – fa crescere a dismisura un desiderio di risentimento e acredine…