LA CRISI DEL “WELFARE STATE

 

 

 

Tutti i corpi e tutte le menti insieme e tutto ciò che producono non valgono un minimo gesto di carità, poiché questa appartiene a un ordine infinitamente più elevato. (Blaise Pascal)
Il 10 dicembre 1948, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” che all’articolo 1 sancisce la libertà e l’uguaglianza di tutti gli esseri umani.
Il 28 agosto 1963 Martin Luther King cita il motto nel suo famoso discorso I Have a Dream: « E quindi, anche se ci troviamo ad affrontare le asperità dell'oggi e del domani, io ho ancora un sogno.
È un sogno profondamente radicato nel sogno americano. Io sogno che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso autentico del suo credo:
"noi riteniamo queste verità ovvie, che tutti gli uomini sono stati creati uguali" »

 

Per combattere le differenze sociali più evidenti che si sono prodotte e continuano a crearsi nelle collettività, gli Stati hanno realizzato il Welfare.
Purtroppo oggi tale rimedio è entrato in crisi in quanto, oltre alle motivazioni pratiche che affronterò più avanti, essa deriva da una falsa interpretazione
 dell’«efficienza» vista in contrapposizione con il requisito dell’«equità». Occorrerebbe, in realtà, tener conto sia dell’una sia dell’altra, ma non è cosa semplice da attuarsi.

 


 

 

 

 

Secondo gli esperti sociologi, i principali motivi dell’attuale crisi dello Stato sociale sono: l’invecchiamento della popolazione e l’allungamento della vita media; il mutato ruolo della famiglia e l’aumento dell’occupazione femminile; la fragilità della struttura sociale; l’emersione di nuovi bisogni e la richiesta d’inclusione sociale; l’aumento della consapevolezza di diritti da parte di associazioni di familiari e utenti, le crescenti aspettative di qualità della vita. A mio avviso non credo che si possa lavorare per modificare con la politica questi fattori del tutto naturali e legati al progresso, tranne forse la “fragilità della struttura sociale”, ma sarebbe poca cosa. Sarebbe importante, invece, far sì che i soldi che lo Stato spende per erogare assegni vari in sussistenza ai poveri vadano esclusivamente nelle tasche giuste e non, come sostiene l’inchiesta di Milena Gabanelli, anche a chi non spetterebbero perché non rientrano nei requisiti stabiliti dalla legge. Nell’analisi fatta dalla Gabanelli e dalla Querzè pubblicata dal Corriere della Sera del 14 gennaio scorso, si sostiene che sarebbe necessario eseguire un riordino della spesa sociale perché oggi ci sono, nell’erogazione degli assegni, notevoli spazi procedurali poco controllati che permettono alla solita furbizia italiana di far infilare chi proprio povero non lo è. Infatti, dall’inchiesta si rileva che l’INPS spende 53 miliardi ogni anno per aiutare chi sta peggio (in gran parte destinati agli assegni sociali e all’integrazione del minimo). Tali sussidi spetterebbero solo a chi è al di sotto di un certo reddito, ma sempre secondo la Gabanelli, sembra che una buona parte della somma erogata - circa il 50% - vada alle famiglie con redditi superiori alla media stabilita per averne diritto. Oltre all’INPS anche le Regioni e i Comuni intervengono a erogare “bonus” per aiutare le famiglie bisognose, ma non esiste un sistema per coordinare le varie misure; l’INPS avrebbe dovuto varare il “casellario” dove, per ciascun cittadino, dovevano essere elencate le prestazioni sociali percepite. Il progetto non si è mai realizzato. Per quanto riguarda i suggerimenti che Gabanelli e Querzè indicano nell’articolo citato riporto integralmente questa parte:

Spesso la spesa sociale finisce a chi non ne avrebbe diritto perché è facile truccare le carte. Lo strumento che valuta come se la sta passando una famiglia è l’Isee. L’ultima riforma l’ha migliorato, ma secondo le verifiche della Guardia di Finanza, il 60% degli Isee è basato su autodichiarazioni false. Il tasso di irregolarità è del 90% per le esenzioni dai ticket sui farmaci e del 39% per le richieste di prestazioni sociali nei primi mesi del 2018. Più che aumentare i controlli a valle bisogna incrociare sempre a monte i dati delle proprietà immobiliari, dei redditi e delle giacenze medie sui conti correnti. Ancor meglio inserire i dati delle amministrazioni in un Isee già precompilato: doveva partire nel 2018, ma ancora non si è visto”.

Per fortuna allo Stato sociale che decade inesorabilmente per effetto di una crisi endemica e di cattiva gestione, viene in soccorso il Welfare aziendale (WA) e quello privato. E questo da noi funziona abbastanza bene: rispetto a qualche decina di anni fa, oggi un numero crescente di lavoratori e di famiglie dispone di Welfare integrativo. Personalmente ho avuto l’occasione di percorrere la vita lavorativa che mi ha fatto sperimentare la crescita nelle aziende di tale sostegno economico. Negli anni ’60 pochissime aziende lo praticavano, io ho avuto la fortuna di lavorare all’inizio in una di queste: l’Olivetti, che ne aveva fatta una bandiera d’immagine. Così ho potuto verificare de visu il diffondersi di tali sistemi con i quali le imprese tendono a migliorare le dinamiche vita-lavoro dei propri dipendenti. L’azienda aiuta il dipendente fornendogli una serie di beni e servizi destinati a dare risposte ai bisogni della sua vita familiare e in cambio ne ottiene una maggiore fidelizzazione. Queste le più diffuse azioni di WA che le imprese mettono in atto: l’asilo nido, l’acquisto dei testi scolastici, alcuni servizi di assistenza per i familiari anziani e non autosufficienti, la partecipazione alle assicurazioni sanitarie integrative oltre che per i dipendenti anche per i propri pensionati. Anche se questo sistema di WA allarga le diseguaglianze tra chi lavora e chi un lavoro non ce l’ha e tra chi lavora in aziende Welfare oriented e chi no, almeno colma una parte delle lacune create dal Welfare state.

Ho lasciato per ultimo la descrizione del grande lavoro svolto, per i 5 milioni di poveri italiani e per gl’immigrati, dalle Organizzazioni Onlus sia religiose sia laiche perché voglio dare loro maggiore rilievo, in quanto sono convinto che, in assenza della loro attività, il paese collasserebbe e potrebbero crearsi anche tensioni sociali difficilmente controllabili. Tali organismi assistenziali con l’opera di una massa di volontari fanno funzionare le mense classiche, le nuove forme di micro credito per permettere a chi non ha più uno stipendio di pagare le bollette, la spesa settimanale, i mercatini gratuiti dell’usato, i ricoveri per i senzatetto e per l’“emergenza freddo”. Ci sono mille forme di volontariato in quest’Italia stremata dalla crisi: dalle donazioni per le borse lavoro, con cui si pagano stipendio e assicurazione ai nuovi assunti sgravando per qualche mese gl’imprenditori che sono così incentivati ad assumere, alle associazioni di medici e paramedici che, sostituendosi allo Stato, vanno casa per casa, gratuitamente, ad assistere malati terminali, diabetici, disabili, anziani soli incapaci di badare a se stessi.

Di queste Organizzazioni, un ruolo particolarmente attivo lo esercitano le Caritas diocesane con le proprie strutture funzionanti a tempo pieno e il gran numero di volontari a disposizione. Anch’io faccio parte di quella di Roma come Operatore della Carità e veramente posso dire a ragion veduta che svolgono egregiamente il Welfare integrativo. Per esempio le attività Caritas nella nostra Diocesi, oltre alle opere delle Parrocchie, sono: il mantenere in vita 20 Centri di accoglienza per “senza dimora”, 4 mense, 2 empori dove i poveri possono andare a fare la spesa gratuitamente e altri organismi preposti all’ascolto, alle famiglie, alla sanità, alla formazione, ecc.. Vi sembra poco? A me no. Sommando anche il lavoro fatto dalle altre Diocesi italiane, pensate al volume complessivo di assistenza ai bisognosi che la Caritas svolge nel Paese. Se non ci fosse la Caritas se ne sentirebbe veramente la mancanza!

Gian Paolo Di Raimondo – 1° febbraio 2019